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PESCARA. A quasi cinque anni dall’avvio del procedimento giudiziario che vede don Camillo Lancia, ex parroco di Città Sant’Angelo, vittima di un ricatto a sfondo sessuale da circa mezzo milione di euro, ieri mattina è stato ascoltato in aula l’ultimo imputato: Alessio Scurti, 27 anni. Il giovane, difeso dagli avvocati Melania Navelli e Pierluigi Amoroso, è accusato di aver riciclato le somme di denaro ricevute da don Lancia tra il 2017 e il 2019 – circa 500mila euro – tramite nove assegni e tre bonifici bancari.
Sul banco degli imputati, insieme a lui, anche i genitori: il padre Eraldo Scurti, 57 anni, e la madre, Claudia Palma D’Andrea, 52 anni. Secondo l’accusa, formulata dal sostituto procuratore Fabiana Rapino, i coniugi avrebbero ordito un piano di estorsione aggravata, approfittando dell’infatuazione che il 76enne sacerdote nutriva per la donna. Quest’ultima, secondo le ricostruzioni, avrebbe sedotto l’uomo mostrandogli parti del proprio corpo, per poi, insieme al marito, minacciarlo di diffondere video compromettenti che ritraevano i suoi approcci a sfondo sessuale. In cambio del loro silenzio, il parroco sarebbe stato costretto a versare ingenti somme di denaro.
In aula, Alessio Scurti ha raccontato il rapporto stretto che intercorreva tra la sua famiglia e don Camillo: «Lo conosco da quando ero bambino, frequentava spesso casa nostra. Gli assegni? Sosteneva di dover restituire a mio padre soldi prestati per investimenti nello IOR. Me li consegnava, e io li giravo a mio padre. Non mi ha mai fatto bonifici». Il giovane ha aggiunto che il sacerdote era diventato una figura quasi familiare, solito portare frutta e verdura, pranzare con loro e guardare la televisione insieme, poiché non ne possedeva una. «Spesso andavo a trovarlo in parrocchia, mi mostrava la sua collezione di bibbie antiche o i lavori sul tetto. Più di una volta mi chiese di fargli vedere filmati pornografici sul mio telefono. Acconsentivo, ma mi sentivo a disagio».
A seguito della denuncia di don Lancia, l’arcivescovo di Pescara-Penne, monsignor Tommaso Valentinetti, aveva disposto per lui un trasferimento in un’altra parrocchia della città, dopo un periodo di esercizi spirituali al Volto Santo di Manoppello. «Una decisione presa per il bene suo e della comunità», aveva dichiarato l’arcivescovo in aula nel maggio 2024.
La vicenda si è ulteriormente aggravata con la testimonianza resa in aula dalla stessa D’Andrea nel novembre successivo. La donna ha raccontato che il sacerdote aveva iniziato a frequentare la loro casa di Montesilvano già nel 2008, quasi quotidianamente. «All’inizio mi faceva complimenti, poi ha iniziato a toccarmi. Un giorno mi chiese se volevo fuggire con lui e diventare la sua amante, e si abbassò i pantaloni prendendomi la mano». Ha spiegato di non aver denunciato prima per «vergogna, paura e per proteggere i figli», e ha aggiunto: «Temevo anche che non ci restituisse i soldi. Ho sopportato per anni, poi ho detto basta».
La sentenza è attesa per il prossimo 16 ottobre.
Sul banco degli imputati, insieme a lui, anche i genitori: il padre Eraldo Scurti, 57 anni, e la madre, Claudia Palma D’Andrea, 52 anni. Secondo l’accusa, formulata dal sostituto procuratore Fabiana Rapino, i coniugi avrebbero ordito un piano di estorsione aggravata, approfittando dell’infatuazione che il 76enne sacerdote nutriva per la donna. Quest’ultima, secondo le ricostruzioni, avrebbe sedotto l’uomo mostrandogli parti del proprio corpo, per poi, insieme al marito, minacciarlo di diffondere video compromettenti che ritraevano i suoi approcci a sfondo sessuale. In cambio del loro silenzio, il parroco sarebbe stato costretto a versare ingenti somme di denaro.
In aula, Alessio Scurti ha raccontato il rapporto stretto che intercorreva tra la sua famiglia e don Camillo: «Lo conosco da quando ero bambino, frequentava spesso casa nostra. Gli assegni? Sosteneva di dover restituire a mio padre soldi prestati per investimenti nello IOR. Me li consegnava, e io li giravo a mio padre. Non mi ha mai fatto bonifici». Il giovane ha aggiunto che il sacerdote era diventato una figura quasi familiare, solito portare frutta e verdura, pranzare con loro e guardare la televisione insieme, poiché non ne possedeva una. «Spesso andavo a trovarlo in parrocchia, mi mostrava la sua collezione di bibbie antiche o i lavori sul tetto. Più di una volta mi chiese di fargli vedere filmati pornografici sul mio telefono. Acconsentivo, ma mi sentivo a disagio».
A seguito della denuncia di don Lancia, l’arcivescovo di Pescara-Penne, monsignor Tommaso Valentinetti, aveva disposto per lui un trasferimento in un’altra parrocchia della città, dopo un periodo di esercizi spirituali al Volto Santo di Manoppello. «Una decisione presa per il bene suo e della comunità», aveva dichiarato l’arcivescovo in aula nel maggio 2024.
La vicenda si è ulteriormente aggravata con la testimonianza resa in aula dalla stessa D’Andrea nel novembre successivo. La donna ha raccontato che il sacerdote aveva iniziato a frequentare la loro casa di Montesilvano già nel 2008, quasi quotidianamente. «All’inizio mi faceva complimenti, poi ha iniziato a toccarmi. Un giorno mi chiese se volevo fuggire con lui e diventare la sua amante, e si abbassò i pantaloni prendendomi la mano». Ha spiegato di non aver denunciato prima per «vergogna, paura e per proteggere i figli», e ha aggiunto: «Temevo anche che non ci restituisse i soldi. Ho sopportato per anni, poi ho detto basta».
La sentenza è attesa per il prossimo 16 ottobre.