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PESCARA. Si erano conosciuti via chat, su un noto sito di incontri. Un appuntamento, poi la decisione di convivere: inizia così la breve relazione tra un uomo di 75 anni, critico d’arte e scrittore veneto, e una donna di 55 anni, originaria della Campania. Un rapporto durato appena una ventina di giorni, nel maggio 2024, nella casa di lui a Pescara. Ma quel legame si è concluso tragicamente e ieri è arrivata la condanna: 5 anni di reclusione per lesioni aggravate da sfregio permanente al volto della donna, deceduta suicida due giorni prima dell’inizio del processo.
Secondo l’accusa, durante un violento litigio avvenuto il 18 giugno 2024, l’uomo avrebbe colpito la compagna con un frammento di piatto in ceramica, provocandole una ferita permanente. La procura, rappresentata dal pm Gabriella De Lucia, aveva chiesto 8 anni di reclusione, considerando la gravità del reato, ma il tribunale collegiale ha emesso una condanna inferiore.
Una storia complessa, segnata da versioni contrastanti. Quel giorno, infatti, scattarono denunce reciproche: l’uomo denunciò la donna per presunte aggressioni subite – denuncia poi archiviata – mentre lei lo accusò del gesto violento che le avrebbe deturpato il volto.
Ieri, prima della discussione finale, l’imputato – ipovedente – ha reso dichiarazioni spontanee in aula, assistito dalla penalista Roberta Giansante. Ha ripercorso la nascita del rapporto, raccontando di aver conosciuto la donna online e di averla ospitata nella sua abitazione pescarese. Dopo la denuncia, gli era stato imposto il divieto di avvicinamento, ma la misura durò poco: la donna era tornata nella sua regione d’origine.
Secondo quanto riferito dall’imputato, la donna avrebbe mostrato segni di disagio fin dall’inizio: alcolismo cronico e precedenti tentativi di suicidio. La convivenza inizialmente sembrava funzionare, ma i rapporti si sarebbero incrinati quando lui propose di aiutarla a vendere una casa in cambio di una commissione, ipotesi che lei avrebbe percepito come un tentativo di truffa.
Il giorno della lite, la situazione sarebbe degenerata: l’uomo ha raccontato di essere stato aggredito e quasi strangolato con il filo del telefono. Durante la colluttazione, un piatto andò in frantumi e un frammento sarebbe stato usato per difendersi, colpendo accidentalmente il volto della donna. La difesa ha sostenuto che il sangue trovato sull’uomo proveniva dalla compagna e che lui si trovava sotto di lei, senza possibilità di vedere chiaramente quanto stava accadendo.
Tuttavia, la versione dell’imputato è stata messa in dubbio dalla testimonianza della proprietaria dell’abitazione, secondo la quale l’uomo era perfettamente in grado di leggere libri e usare il cellulare. Affermazioni contestate dalla difesa e da un consulente tecnico, che ha chiarito il livello di disabilità visiva dell’uomo. Il pm ha chiesto l’acquisizione formale di tale testimonianza per valutarne la credibilità.
«Sono un pacifista convinto – ha dichiarato l’uomo dopo l’udienza – ho scritto saggi contro la discriminazione femminile nell’arte. Non riesco a credere che possano pensare che io abbia commesso un simile gesto. Sono stato io ad uscire in strada in mutande per chiedere aiuto e a chiamare i carabinieri».
La difesa, ora, attende le motivazioni della sentenza per valutare il ricorso in appello.
Secondo l’accusa, durante un violento litigio avvenuto il 18 giugno 2024, l’uomo avrebbe colpito la compagna con un frammento di piatto in ceramica, provocandole una ferita permanente. La procura, rappresentata dal pm Gabriella De Lucia, aveva chiesto 8 anni di reclusione, considerando la gravità del reato, ma il tribunale collegiale ha emesso una condanna inferiore.
Una storia complessa, segnata da versioni contrastanti. Quel giorno, infatti, scattarono denunce reciproche: l’uomo denunciò la donna per presunte aggressioni subite – denuncia poi archiviata – mentre lei lo accusò del gesto violento che le avrebbe deturpato il volto.
Ieri, prima della discussione finale, l’imputato – ipovedente – ha reso dichiarazioni spontanee in aula, assistito dalla penalista Roberta Giansante. Ha ripercorso la nascita del rapporto, raccontando di aver conosciuto la donna online e di averla ospitata nella sua abitazione pescarese. Dopo la denuncia, gli era stato imposto il divieto di avvicinamento, ma la misura durò poco: la donna era tornata nella sua regione d’origine.
Secondo quanto riferito dall’imputato, la donna avrebbe mostrato segni di disagio fin dall’inizio: alcolismo cronico e precedenti tentativi di suicidio. La convivenza inizialmente sembrava funzionare, ma i rapporti si sarebbero incrinati quando lui propose di aiutarla a vendere una casa in cambio di una commissione, ipotesi che lei avrebbe percepito come un tentativo di truffa.
Il giorno della lite, la situazione sarebbe degenerata: l’uomo ha raccontato di essere stato aggredito e quasi strangolato con il filo del telefono. Durante la colluttazione, un piatto andò in frantumi e un frammento sarebbe stato usato per difendersi, colpendo accidentalmente il volto della donna. La difesa ha sostenuto che il sangue trovato sull’uomo proveniva dalla compagna e che lui si trovava sotto di lei, senza possibilità di vedere chiaramente quanto stava accadendo.
Tuttavia, la versione dell’imputato è stata messa in dubbio dalla testimonianza della proprietaria dell’abitazione, secondo la quale l’uomo era perfettamente in grado di leggere libri e usare il cellulare. Affermazioni contestate dalla difesa e da un consulente tecnico, che ha chiarito il livello di disabilità visiva dell’uomo. Il pm ha chiesto l’acquisizione formale di tale testimonianza per valutarne la credibilità.
«Sono un pacifista convinto – ha dichiarato l’uomo dopo l’udienza – ho scritto saggi contro la discriminazione femminile nell’arte. Non riesco a credere che possano pensare che io abbia commesso un simile gesto. Sono stato io ad uscire in strada in mutande per chiedere aiuto e a chiamare i carabinieri».
La difesa, ora, attende le motivazioni della sentenza per valutare il ricorso in appello.